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In prima linea sull'accoglienza (I parte)

10.01.06

Le conseguenze del conflitto interno colombiano
sull’afflusso di sfollati verso la frontiera sud con l’Ecuador

L’analisi e la testimonianza per Selvas.org di Marica Di Pierri
tratto da selvas.org

Tulcàn, 18 novembre 2005

Quando mi comunicarono, durante una noiosa riunione ministeriale, che ero stata selezionata per il Servizio Civile Internazionale in Ecuador, non pensavo certo che in realtà mi sarei trovata a lavorare – in modo direi esclusivo – con le problematiche relative non all’Ecuador, ma alla vicina Colombia, in termini di situazione politica, conflitto interno, traumi sociali ed emergenze umanitarie.
Ed invece, due elementi che ancora non conoscevo avrebbero contribuito in maniera più che determinante ad orientare il mio lavoro quotidiano verso questo Paese notoriamente conflittuale di cui tanto si parla, ma del quale in realtà tanto poco si conosce.
Primo tra tutti: la sede del progetto, ubicato nella cittadina di frontiera di Tulcàn, appartenente alla provincia settentrionale del Carchi e distante soli 5 km dal confine colombiano.
Secondo elemento: la natura del progetto, intitolato “Movilidad Humana y Refugio” ed avente come finalità generale quella di fornire orientamento e consulenza ai migranti che transitano sulla frontiera, siano essi in entrata od in uscita.
Oltre a ciò, la situazione peculiare che si vive sul confine sud colombiano, l’inasprirsi negli ultimi anni del conflitto interno nelle regioni meridionali, gli strumenti di tutela giuridica offerti dalla comunità internazionale e quindi anche dal vicino Ecuador, hanno reso nella realtà l’ufficio della Pastoral Migratoria (in cui lavoro come consulente giuridica) né più né meno che un approdo quotidiano di colombiani in uscita dal loro paese.

Le strategie del governo colombiano per far fronte alla situazione

Negli ultimi mesi, l’implementazione di un nuovo “Plan” strategico nelle regioni colombiane meridionali – ennesimo estremo tentativo di presa di petto della situazione dopo i fallimentari tentativi dei governi precedenti, primo tra tutti il Plan Colombia, e la messa in moto dell’Operaciòn Libertad y dell’Operaciòn Rio Blanco (aventi come scopo lo sradicamento della guerriglia nello specifico nelle province fronterize di Narino, Putumayo e Caquetà), ha spinto quantità crescenti di desplazados a lasciare in fretta e furia le loro case, molto spesso senza avere il tempo di portare via nulla, in cerca di condizioni di sicurezza e prospettive di vita migliori oltre frontiera.
Per inciso, le più recenti riviviscenze belliche nelle regioni sud, non costituiscono in verità che una evoluzione ad hoc delle precedenti “strategie di pace” formulate ed attuate negli ultimi due decenni nel Paese.
La Costituzione colombiana, infatti, stabilisce che ogni governo deve elaborare un Piano Nazionale di Sviluppo. Guillelmo Leòn Valencia formulò il suo “Plan Laso”, Julio Cesar Turbay Ayala provò a dare nuovo impulso alla situazione con il suo “Estatudo de seguridad”. Seguirono il “Plan de guerra integral” del presidente Cesàr Gaviria e il famigerato “Plan Colombia” del presidente Pastrana.

Eletto nel giugno del 1998, Andrès Pastrana firmò a Washington il 21 settembre del 1999 con l’allora presidente Clinton un “Piano per la pace, la prosperità e il rafforzamento dello Stato” chiamato appunto Plan Colombia, che, nell’anno della sua formulazione, presupponeva un appoggio economico statunitense all’esercito colombiano stimato attorno all’enormità di 1.300 milioni di dollari, così ripartiti: 56% per assistenza militare in senso stretto, 26% per assistenza alle forze di polizia, 9% da destinarsi a strumenti di sviluppo alternativo, 3% per far fronte al problema del desplazamiento, il 3% per il rafforzamento dello stato di diritto, il 2% per approntare una necessaria riforma giudiziale e solo l’1% per garantire il rispetto dei diritti umani.

??( Fonte: Asamblea Permanente de Derechos Humanos del Ecuador ,Boletin No.1 , Junio 2002)??

La frontiera, con le code di automezzi in passaggio

Ancora solo nel 2004, le stime pubbliche parlavano di un contributo statunitense per la campagna militare in Colombia di 110 milioni di dollari, segno inconfutabile dell’interesse che le evoluzioni del conflitto interno colombiano rappresentano per il governo di Washington.
In realtà, sembrerebbe di poter affermare, vista la gran mobilitazione diplomatica della Casa Bianca e la mole di capitali investiti nella zona, che il Pentagono ha smesso di considerare Cuba il nemico numero uno nel continente, iniziando a guardare con preoccupazione crescente la possibile instaurazione di un narco-stato colombiano.
Oltre a ciò, e probabilmente con mira più realistica, gli osservatori internazionali continuano ad affermare che i veri interessi statunitensi nella zona riguardano lo sfruttamento delle ricchezze della conca andino-amazzonica, che rappresenta attualmente la principale fonte di acqua dolce al mondo, con una percentuale del 75% del totale, oltre ad essere una regione incredibilmente ricca di risorse naturali come petrolio, oro, minerali, pietre preziose, legno.

L’attuale governo di Alvaro Uribe, in carica dal 2002, ha portato avanti una politica definita paradossalmente di “sicurezza democratica”. Divenuto sodale di Bush, e seguiti alla lettera i dettami del Plan Patriota (che ha comportato il dispiego di decine di migliaia di soldati addestrati e guidati da ufficiali del Comando Sud degli USA con il compito specifico di combattere i gruppi guerriglieri) Uribe è divenuto una figura controversa nel panorama delle relazioni internazionali. La sua dichiarata guerra ai gruppi armati ha preso energicamente di mira, con azioni militari incalzanti, i militanti delle FARC e dell’ELN, mentre ha intrapreso un dialogo aperto con le fazioni paramilitari, sdoganando le AUC attraverso un processo di pace farsa culminato nella consegna delle armi da parte di vari blocchi paramilitari che ha comportato per i cosiddetti mobilizzati la garanzia dell’impunità per le atrocità commesse. Non è mancato chi ha parlato del governo di Uribe come di un governo narco-paramilitare.
Inoltre, nonostante le statistiche ufficiali e l’ottimismo dei portavoci governativi, gli indicatori macroeconomici parlano di una economia ben lontana dalla ripresa. Le importazioni continuano ad aumentare ed hanno raggiunto il volume di 10 milioni di tonnellate annue (contro le 500.000 dei pur nefasti primi anni ‘90), l’80% della popolazione permane sotto la soglia di povertà (con meno, cioè, di 1 dollaro al giorno), la disoccupazione sfiora il 30%, con la percentuale più alta dell’america latina, e dei circa 15 milioni di lavoratori almeno 9 vivono una situazione di sottoccupazione.
Oltre a ciò, continua lo smantellamento dell’apparato produttivo statale, stretto tra privatizzazioni e svendite ai grandi gruppi transnazionali; sanità ed istruzione boccheggiano a causa degli ingenti tagli operati alla spesa pubblica in linea con le indicazioni di FMI e Banca Mondiale e la controriforma agraria avanza nonostante le opposizioni fortissime mettendo in ginocchio interi settori rurali dello stato.

Le relazioni colombo-ecuatoriane

Dalla defenestrazione del Presidente ecuadoriano Lucio Gutierrez, seguita dall’entrata in carica del suo vice Alfredo Palacio, le relazioni tra Quito e Bogotà hanno subito un sensibile cambio di rotta.
Ben lontano dall’accettare tout-court, come il suo predecessore, le intenzioni colombo statunitensi di regionalizzazione del conflitto, Palacio chiede a Bogotà tangibili segnali di distensione nella zona sud, dove la riesplosione degli scontri tra le forze armate irregolari ed l’esercito ha comportato negli ultimi mesi una forte escalation della violenza.
Il cancelliere ecuadoriano Antonio Parra Gil ha chiesto più volte (come anche il Ministro del governo Mauricio Gandara) l’approvazione di una legge che subordini l’ingresso dei colombiani nel Paese all’ottenimento di un visto regolare. Tale proposta, che ha ottenuto il netto dissenso dei vertici colombiani e delle organizzazioni umanitarie che lavorano con i richiedenti asilo politico ed i migranti, è giunta dopo che il presidente colombiano ha affermato nuovamente, e nonostante le perplessità espresse da Carondelet, di voler incontrare Palacio al fine di concordare insieme una strategia per il contenimento del conflitto nella zona sud, studiando misure per evitare ai guerriglieri di rifugiarsi nei territori ecuadoriani di frontiera.
La netta svolta di atteggiamento dimostrata dal Governo ecuadoriano si è concretizzata inoltre nella linea di intransigenza che i portavoci ecuadoriani hanno deciso di tenere nei colloqui con i colleghi colombiani: l’Ecuador chiede insistentemente che la Colombia si incarichi del rafforzamento della presenza militare sulle zone di frontiera, che interrompa immediatamente le fumigazioni sino a che non ne sarà esclusa ogni conseguenza nociva, e soprattutto che il governo di Bogotà collabori fattivamente nella ricerca di soluzioni congiunte per il mezzo milione di colombiani che vivono in Ecuador.

La situazione sulla frontiera

Le zone di frontiera rappresentano attualmente una delle situazioni territoriali più delicate, e vi si incontrano realtà tra le più povere e depresse, comparate con le statistiche di altre regioni sia della Colombia sia dello stesso Ecuador.
Problemi particolarmente gravi, che implicano il radicarsi di situazioni di autentico degrado, sono la totale disattenzione statale, la carenza di servizi, il crescente tasso di insicurezza sociale e l’alto livello di vulnerabilità della popolazione residente.
I governi locali e le istituzioni che lavorano nel settore non possono contare su una strategia organica che tenga conto degli effetti della pressione migratoria e della situazione politica ed umanitaria che si vive oltre-confine; le risorse economiche che arrivano alle comunità provengono per la maggior parte da istituzioni internazionali governative o non governative, o in alcuni casi dalla generosità di singoli privati. Non esiste una voce di spesa pubblica per far fronte alla problematica dell’impatto migratorio sulle zone di confine ed il dialogo e il coordinamento tra le istituzioni coinvolte sono a dir poco insufficienti. In questo panorama di mancato coordinamento, le istituzioni ecclesiastiche e non governative presenti nelle zone di frontiera, lavorano pazientemente e con i mezzi disponibili per organizzare ed offrire aiuti alla popolazione desplazada, in termini di consulenza giuridica, appoggio psicologico ed economico.

Nel report annuale sui diritti umani in Colombia stilato per l’anno 2004 dall’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, si legge che il conflitto armato ha provocato da gennaio a dicembre tra le 3000 e le 4000 vittime, con un numero di sfollati che si aggira intorno alle 137.000 persone, che vanno ad aggiungersi ad una stima totale che supera i 2.000.000 di persone, tra i quali almeno 800.000 minori d’età. Gli omicidi politici sono stati (secondo il Centro de Investigaciòn y Educaciòn Popular CINEP) almeno 382, e le sparizioni almeno 65 nei soli primi sei mesi del 2004, con un tasso di impunità vicino al 90%.
Commentando tali impressionanti numeri tuttavia, il report dell’ONU conclude considerando che durante l’anno in esame molti degli indicatori di diritti umani hanno registrato migliorie importanti: gli omicidi sarebbero calati del 16%, i massacri terroristici quasi del 50%, le morti di leader sindacali del 25%, i sequestri del 42% e il numero degli sfollati di un 37%.
Ciò nonostante, molte ONG operanti sul territorio contestano l’ottimismo delle Nazioni Unite, sottolineando che, se alcune zone stanno vivendo mesi di seppur parziale distensione, ve ne sono altre, come appunto la frontiera sud, nella quali al contrario la situazione sembra peggiorata, se non precipitata.
A tal proposito, l’ultima nota informativa del CODHES (Consultorìa para los Derechos Humanos y el Desplazamiento) relativa al secondo trimestre 2005, informa che in termini di sfollati, ad esempio, la situazione non è affatto migliorata, con un totale di gente mobilizzata nel solo secondo trimestre pari a 153.462, che rappresenta un incremento del 17.7% rispetto alle cifre relative allo stesso periodo dell’anno precedente. In altre parole, dice il rapporto, la Colombia è passata nel giro di un anno da una media di 724 ad una media di 848 persone sfollate quotidianamente.
Per quanto riguarda più strettamente la situazione sulla frontiera sud, il CODHES denuncia che la situazione di sicurezza nella regione frontaliera non ha registrato alcun miglioramento, anzi, è aumentato il grado di vulnerabilità della popolazione che vive nella zona assieme al livello di rischio che quotidianamente tale popolazione affronta.
“ Prima di tutto – argomenta il report – nelle zone di frontiera la popolazione civile vive sotto il controllo quasi esclusivo di gruppi armati per i quali la priorità è la difesa del territorio e delle risorse, e non certo della popolazione civile. Secondo, la continua espansione della rete del narcotraffico ha significato un netto deterioramento della situazione umanitaria nelle zone interessate dalle coltivazioni illecite. Infine, lo sconfinamento del conflitto armato verso i paesi vicini, che si manifesta atraverso la fuga della popolazione oltreconfine e la presenza e l’incursione frequente di gruppi armati colombiani in Ecuador e Venezuela, sono fattori che senza ombra di dubbio orientano le prospettive verso una progressiva degenerazione delle condizioni di vita in frontiera.”
Ciò ha generato una progressiva politica di chiusura delle frontiere messa in atto dai Paesi confinanti che non può che danneggiare ancora di più la delicata situazione della popolazione civile colpita dal conflitta interno.
Insomma, la mancanza dello Stato nella regione frontaliera persiste, secondo il CODHES, nonostante l’incremento della presenza militare nella regione, e nonostente il tanto pubblicizzato lavoro svolto dal governo Uribe nel processo di smobilitazione dei gruppi paramilitari nel Blocco Sud del Nariño.
In un altro diagnostico, stilato per l’anno 2004 da Amnesty Internacional, si legge che “pur riconoscendo che nel corso dell’anno in esame alcuni indicatori di violenza, particolarmente per motivi politici (come sequestri e massacri) risultano in miglioramento, in realtà sono aumentate nel 2004 le esecuzioni sommarie extragiudiziarie, le sparizioni forzate e la tortura”.

Un momento di prima accoglienza…

Oltre a tali evidenze, numerose organizzazione di difesa ecologica si stanno muovendo per porre rimedio all’increscioso problema delle fumigazioni sulla frontiera sud, che fanno parte ancora una volta del famigerato Plan Colombia, e che danneggiano in egual misura la popolazione rurale colombiana e quella ecuadoriana residenti sulla linea di confine. L’organizzazione Earthjustice, ad esempio, ha chiesto allo stesso Commissariato Onu per i diritti umani di far pressione sui governi colombiano e statunitense per sospendere le frequenti fumigazioni aeree di glisofato (erbicida prodotto dalla multinazionale Monsanto). Le disinfestazioni, decise a tavolino per distruggere con metodi chimici i coltivi illegali di coca, vengono effettuate da aerei militari che distruggono sempre più spesso anche le coltivazioni di sussistenza dei contadini della zona (quasi 2000 ettari sino ad ora), inquinano le falde acquifere ed uccidono la fauna ittica ed il bestiame, causando tra l’altro ingenti problemi di salute. Si sono registrate infatti, dalla messa in moto del programma di fumigazioni, disturbi respiratori e gastrointestinali, irritazioni agli occhi ed alle zone genitali, oltre ad alcune nascite diffettose delle quali non sono chiarite le cause.
I due governi sono accusati dalle Ong che conducono tale battaglia di aver taciuto sulla reale tossicità del pesticida, rifiutandosi di fornire dettagli sui componenti presenti e coprendo tali informazioni con il massimo riserbo.

Le principali cause di fuga e le misure previste dalla legge per far fronte all’accoglienza

Nelle testimonianze concitate raccolte quotidianamente durante il mio lavoro, si incontrano non di rado elementi ricorrenti: le dinamiche comuni parlano sovente di incursioni ripetute da parte delle forze armate irregolari (guerriglia o paramilitari) che irrompono nelle fattorie pretendendo che le coltivazioni tradizionali vengano convertite in campi di coca da gestire sotto il coordinamento e la protezione dei gruppi armati. Di fronte al rifiuto, vengono lasciate ai malcapitati poche ore di tempo, con la minaccia di mettere a ferro e a fuoco le case e giustiziare senza remore i dissidenti.
In altri casi, nei quali i malcapitati non possono scegliere e finiscono con il collaborare con l’una o l’altra parte armata contendente, le ritorsioni divengono una semplice questione di tempo: il tempo necessario alla fazione opposta per venire a conoscenza – tramite la fitta rete di informatori – del legame esistente, seppur forzoso. In tal caso, le irruzioni divengono puri saccheggi, torture, massacri, in nome del controllo dei terreni e delle coltivazioni.
Seconda causa di fuga in ordine di frequenza è costituita dal rifiuto (o impossibilità) di pagare le quote del racket pretese dalle bande armate nei centri abitati – siano essi metropoli o paesi di dimensioni moderate – che mettono a durissima prova i faticosi tentativi dei cittadini di avviare attività proprie, seppur piccole.
Nell’incredibile breviario di esperienze raccolte durante quest’anno di impiego oltreoceano, ve ne sono senza dubbio alcune che meritano di essere raccontate.

E’ il caso del signor Jose, che perse la moglie e la vista durante gli scontri tra paramilitari ed esercito nei campi vicini alla sua casa, e, dopo aver subito multiple ed inutili operazioni nel tentativo di salvare almeno un occhio, vive ora elemosinando, impossibilitato a deambulare normalmente a causa dei chiodi metallici nella gamba e macerando nel pensiero dei suoi bambini di 3 e 4 anni (il più piccolo dei quali rimasto storpio ad un braccio durante lo stesso attentato) ora affidati al Bienestar Familiar colombiano (servizio sociale) a causa della sua permanente impossibilità ad occuparsi efficacemente di loro.

O ancora il caso di Gaviria, una giovane di 23 anni, fisioterapista, rapita dalla guerrilla fuori dall’ospedale nel quale lavorava, e costretta lungo due interminabili anni a prestare i suoi servigi, non solo professionali, al Frente 53 delle FARC. Arrivò in ufficio mortificata, dopo un mese di fuga forsennata attraverso il paese, terrorizzata, annichilita, umiliata nell’animo e nelle carni, senza più gioia negli occhi.

Norberto, un signore anziano e pacioso, costretto di punto in bianco dalla guerrilla a coltivare coca e non più mais e yucca. Questione di mesi, e i paramilitari fecero irruzione nella sua fattoria bruciandogli i campi e la casa ed uccidendo la moglie e i suoi 4 figli.

Gloria, cui il destino restituì dopo tre anni almeno due dei quattro figli rapiti, 12 ed 11 anni appena, anch’essi ormai spenti, vulnerabili, spaventati.

Wilson, Luz Mary, Jhon Jairo.. e tutti gli altri cui il racket delle estorsioni uccise familiari e intimò la fuga.

E infine tutti i giovani, e sono tanti, che, reclutati alla forza, non hanno altra alternativa che tentare la fuga, ben sapendo che essere scoperti significa andare incontro ad una morte tanto ingiusta quanto inevitabile ed esporre la familia a rischi incalcolabili, a ritorsioni sanguinarie ed ingiustificabili.

Così si vive nella guerra sotterranea che insanguina la colombia da oltre 40 anni.
Senza diritto alla pace, senza diritto alla propria libertà, senza diritto ad ottenere giustizia. Senza diritto alla vita.

*(II parte)*

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