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5.05.08
Il cerchio si stringe intorno ad Alvaro Uribe. Giorno dopo giorno, il suo regime perde pezzi. Gli ultimi a cadere sono stati il cugino Mario, senatore e grande regista della maggioranza governativa che, cercando di sfuggire alla cattura, si è rifugiato nell’ambasciata del Costarica (dichiarandosi umoristicamente un «perseguitato politico»), la presidente del Congresso, Nancy Gutiérrez, e Carlos García, il presidente del partito della «U» (che sta per Uribe). Ad oggi, oltre a decine di sindaci, funzionari statali, alti ufficiali, sono rinchiusi nel carcere «La Picota» più di una trentina di «padri della patria», mentre altrettanti sono accusati di aver fatto affari con i paramilitari e aver loro indicato gli oppositori politici e sociali e la gente comune da ammazzare a pistolettate o a fendenti di motosega.
Altri ancora stanno preparando le valigie, pronti a seguirli col pigiama in carcere o a volare a Miami o in qualche altro rifugio accogliente. Con questi si arriverebbe a quel 35% di eletti che il vicino di fattoria di Uribe, il paramafioso italo-colombiano Salvatore Mancuso si attribuì orgogliosamente cinque anni fa, quando fu ricevuto, con due altri boia suoi pari e con tutti gli onori, nel Congresso della repubblica. Tanta arrogante sincerità dipendeva dall’euforia del momento: allora sembrava che potesse reggere l’impianto giuridico, chiamato paradossalmente «Ley de Justicia y Paz», progettato dallo staff di Uribe per garantire ai sicari delle Autodefensas impunità totale e la legalizzazione dei guadagni della droga e degli espropri di milioni di ettari, realizzati nel sangue.
Tra criminali, però, non ci si può mai fidare. Qualcuno, sentendosi scaricato, ha cominciato a confessare. Qualche altro ha temuto che Uribe cedesse non tanto alle proteste delle vittime dei paramilitari (ignorate dal governo), ma ai suoi schifiltosi sponsor dell’Occidente ricco, a Washington ma soprattutto a Bruxelles, che esigevano una smobilitazione delle Auc un po’ meno scandalosa. La spirale di accuse e contro-accuse ha fatto il resto.
La prima testa a cadere, tre anni fa, fu quella dell’ex capo della polizia presidenziale Das ed ex console a Milano, Rafaele Noguera, un delinquente abituato a passare ai paras l’elenco di gente da ammazzare e protetto fino all’ultimo da Uribe.
Da allora lo scandalo della «para-politica» è cresciuto a valanga, per merito delle denunce delle organizzazioni sociali e di quelle dei diritti umani, ma anche dell’onestà di quella parte della magistratura, soprattutto la Corte Suprema di Giustizia, mantenutasi indipendente da Uribe. Oltre a provarle tutte per soggiogarla, il presidente ha approfittato delle tensioni con il Venezuela di Chávez riguardo alla questione della Betancourt e, più in generale, dello «scambio umanitario» con le Farc per spostare l’attenzione dei colombiani dallo scandalo e anche per invocare un’interessata «unità nazionale». Ma la Corte Suprema è andata avanti lo stesso, fino a provocare l’attuale semi-paralisi del Congresso.
Da mesi, l’informazione asservita, come non mai, tenta di separare Uribe dai suoi seguaci, ripetendo all’infinito la balla di una sua popolarità dell’80-90% (basata ridicolmente su sondaggi commissionati dai potenti amici dello stesso Uribe). Ed evitando, ad esempio, di ricordare che Uribe non avrebbe vinto al primo turno, sia nel 2002 che nel 2006, senza i due milioni e mezzo di voti ricevuti dai senatori arrestati o indagati per paramilitarismo.
Negli ultimi giorni, lo scandalo l’ha coinvolto di persona. Che Uribe fosse il referente della nuova oligarchia paramilitare e mafiosa (visto, ad esempio, l’appoggio pubblico datogli da Mancuso e soci) era una verità politica. Adesso c’è qualcosa di più concreto. Due denunce lo coinvolgono direttamente. Quella di Yidis Medina, una ex deputata che ha ammesso di avere venduto tre anni fa il suo voto in Commissione parlamentare per far passare la rieleggibilità di Uribe (per le pressioni, tra gli altri, dell’ex ministro degli interni ed attuale ambasciatore a Roma, Sabas Pretelt de La Vega). E quella di un paramilitare che ha accusato il presidente (quand’era governatore della regione) di avere pianificato nell’ottobre 1997 il massacro di Aro, insieme con il cugino, Salvatore Mancuso e l’allora direttore della Polizia, Rosso Serrano (sul quale scrisse un’agiografia lo scrittore Santiago Gamboa, attuale ambasciatore uribista all’Unesco).
Mentre cercano una via d’uscita al caos (prospettando da un Congresso di sedie vuote a nuove elezioni), Uribe e i suoi si difendono a denti stretti. Mentre chiedono «senso di responsabilità» alla Corte Suprema, tentano di esautorarla dalla competenza giuridica sui deputati, cambiando le regole costituzionali. Fabbricano montature (l’ultima vorrebbe una Ong internazionale inpegnata a comprare testi d’accusa di Uribe). Ma soprattutto attingono da quella specie di lampada di Aladino che è diventato il pc del defunto leader delle Farc, Raúl Reyes (dal quale traggono prove buone per bufale di respiro nazionale e internazionale). Il ministro della Difesa, Juan Manuel Santos, ha sostenuto che la Corte Suprema dovrà indagare anche sulla connection tra il Congresso e le Farc. L’opposizione parlamentare è avvisata: i colpi di coda del moribondo regime possono far male.