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Colombia degli scandali, manca Uribe

9.05.08

Oltre alla ‘Ndrangheta, da sempre grande alleata dei narco-paramilitari, quale altra risorsa attirerà tanti delinquenti nelle sedi diplomatiche colombiane in Italia? La domanda è più che legittima. Fino all’anno scorso, erano dirette da personaggi come l’ambasciatore Luis Camilo Osorio e il console a Milano Jorge Noguera. Il primo promotore, nei quattro anni in cui diresse la Fiscalia nazionale, dell’insabbiamento di ogni processo sulle violazioni dei diritti umani dell’esercito e dell’asservimento della magistratura inquirente ai boss delle Autodefensas. Il secondo finito in carcere in Colombia per avere collaborato (quando dirigeva la polizia segreta presidenziale, Das) con i paramilitari, ai quali passava perfino le liste di oppositori da eliminare. Adesso è il turno del nuovo ambasciatore a Roma, Sabas de Pretelt de La Vega, ex ministro degli Interni e della Giustizia (significativamente unificati sotto il regime di Alvaro Uribe). Un anno fa, i fratelli paramilitari e narcotrafficanti Mejia Muñera (più conosciuti come Los Mellizos) conquistarono la copertina del settimanale “Cambio”, accusando Sabas de Pretelt di aver loro promesso la non estradizione negli Usa, in cambio dell’appoggio nelle loro zone d’influenza (Magdalena Medio e Valle del Cauca) alla campagna elettorale di Uribe nelle presidenziali del 2006, e alla sua in quelle del 2010. Lui si difese contrapponendo la sua presunta parola di gentiluomo a quella dei due criminali. Ora, a metterlo sotto accusa, è l’ex congressista Yidis Medina, finita in carcere dopo aver confessato ai magistrati della Corte Suprema di aver venduto, quattro anni fa, il suo voto nella Commissione parlamentare che stabilì la rieleggibilità di Uribe, fino ad allora non ammessa dalla Costituzione. Ad offrirle posti nella pubblica amministrazione, secondo la Medina, fu proprio Sabas de Pretelt. “Come per il tango bisogna essere in due: se c’è un corrotto, ci deve essere anche un corruttore”, scrivono i giornali colombiani, prevedendo un prossimo avvicendamento nella sede di via Pisanelli. “Negli ultimi giorni ha telefonato più volte a vari amici a Bogotà dicendo che la vicenda rischia di farlo saltare” racconta la rivista “Cambio”. Ma perché la Medina ha deciso di confessare i suoi peccati col rischio, teorico, di trascorrere dai cinque ai nove anni dietro le sbarre? Difficile attribuirle un rigurgito moralista. E’ più probabile che senta che la nave, sulla quale salì in maniera così clamorosa, stia lì lì per affondare. L’oligarchia mafiosa che Uribe dirige (composta da politici, imprenditori, narcos e paramilitari) si sta sgretolando per la resistenza di buona parte dei colombiani e degli sparuti settori statali, rimasti onesti e indipendenti. Ma anche per le contraddizioni interne. Perfino i maggiori boss delle Autodefensas, come Salvatore Mancuso e don Berna, non sono più sicuri che Uribe possa mantenere le promesse di non spedirli negli Usa (a pagare non per gli innumerevoli delitti di lesa umanità, ma solo per i loro immensi traffici di cocaina). Lo scandalo della cosiddetta para-politica, che continua ad allargarsi a macchia d’olio (nell’ultima settimana sono stati coinvolti altri tre senatori) è ormai fuori controllo, tanto da far apparire Uribe un pugile suonato. Pur dando conto di una realtà che dovrebbe comportare le sue dimissioni (se in Colombia vigesse una democrazia sostanziale), la stampa, devota o intimorita, si rifugia nella fantasia di una sua popolarità plebiscitaria all’80-90%, desunta da grotteschi sondaggi che Gallup e istituti simili realizzano tra la minoranza privilegiata (fornita di telefono o di Internet), evitando accuratamente di consultare i due terzi di colombiani che vivono nella miseria. Un’operazione, comunque, dal fiato corto, se a Uribe non dovesse riuscire d’imbavagliare soprattutto la Corte Costituzionale e la Corte Suprema di Giustizia. La prima, responsabile di avere costretto i paramilitari almeno ad uno straccio di confessione per ottenere il condono dei loro crimini (correggendo parzialmente la scandalosa Legge di “Justicia y Paz” di cui Sabas de Pretelt fu uno dei più illustri artefici). La seconda, decisa a far luce sulle loro chiamate di correo dei delinquenti in giacca e cravatta o in uniforme militare. Guarda caso, tutti fedelissimi di Alvaro Uribe.

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