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21.05.08
«Figli di puttana, ci hanno tradito!». L’urlo soffocato di Rodrigo Tovar Pupo, alias Jorge 40, sulla pista dell’aeroporto militare di Bogotà, qualche secondo prima di essere spinto sull’aereo della Dea, è il miglior commento all’estradizione del gotha del narco-paramilitarismo negli Stati uniti. Tutti i grandi criminali colombiani, nessuno escluso, sono stati svegliati nel cuore della notte tra lunedì e martedì nelle loro celle dorate (a Itaguí, Barranquilla e nel carcere «La Picota» della capitale), prelevati da centinaia di militari e consegnati agli agenti statunitensi: oltre a Jorge 40 sono stati estradati l’italo-colombiano Salvatore Mancuso, Diego Fernando Murillo detto don Berna (erede di Escobar a Medellín), il boss della Costa Atlantica Hernán Giraldo e altri tredici boss.
Perché Alvaro Uribe ha deciso di mandare a marcire forse per tutta la vita in un carcere negli Usa Salvatore Mancuso, suo vicino di fattoria, suo grande elettore, l’esecutore più feroce ed efficace della guerra sporca che ha riempito i cimiteri e le fosse comuni della Colombia e che fu ricevuto come un eroe, nel luglio 2003, in parlamento? Le spiegazioni date da Uribe nel discorso teletrasmesso ieri alle 19 (ora italiana) sono, in sintesi, che i boss «stavano continuando i loro traffici di droga e i loro crimini», «non consegnavano, come avrebbero dovuto, i beni per indennizzare le vittime» e dulcis in fundo «non raccontavano la verità, come previsto dalla ley de justicia y paz, ma lo facevano solo col contagocce e superficialmente». Di primo acchito sembrerebbe che Uribe abbia fatto proprie le accuse che i difensori dei diritti umani (inascoltati, derisi e minacciati) facevano da anni. Ma è vera conversione? In realtà (e qui si capisce l’insulto gridato da Jorge 40), Uribe li spedisce negli Usa non perché non stessero confessando ma al contrario perché, anche se parzialmente, hanno parlato. Tirando in ballo i loro «rispettabili» mandanti che fino a pochi mesi fa occupavano (e molti lo fanno ancora) scranni parlamentari, sedi diplomatiche, posti di comando nell’esercito e nella polizia, poltrone nei consigli d’amministrazione d’imprese colombiane e di multinazionali estere. Una storia tra figli di puttana, dunque: Uribe ha promesso molto più di quello che è riuscito a mantenere ai suoi soci, questi – furibondi, ma anche presuntuosi – hanno tirato troppo la corda, e la corda alla fine si è spezzata trasformandosi nelle catene ai polsi e al collo con le quali i 14 boss hanno salutato forse per sempre la Colombia, ancora non completamente «libera dal comunismo». L’obiettivo di Uribe è chiaro: chiudere la bocca ai sicari per bloccare, tra l’altro, lo scandalo della cosiddetta «para-politica» che (con una settantina di senatori in galera o sul punto di andarci) ha fatto il vuoto intorno a lui. Ad essere colpiti per ora sono stati i presunti «intoccabili», perché sia di monito agli altri, «i pesci più piccoli»: tra delinquenti l’omertà è legge.
Ovviamente la sorprendente mossa di Uribe è stata concordata a Washington: i giudici statunitensi giudicheranno Mancuso e soci soltanto per i delitti legati al narcotraffico. Se indagassero sui loro innumerevoli crimini di lesa umanità troverebbero finanziatori e complici anche in casa loro, tra gli strateghi della guerra di bassa intensità portata avanti allo stesso modo in America Latina da presidenti democratici e repubblicani. Consegnando loro i boss e i loro segreti, Alvaro Uribe si affida totalmente nelle mani degli Usa, sperando di non essere scaricato a sua volta. Di carte da giocare ormai ne ha poche. L’asso calato in questi giorni è la concessione del deserto della Guajira per costruire la base militare statunitense che dovrebbe sostituire quella di Manta, che il presidente dell’Ecuador Rafael Correa sembra determinato a chiudere. Quindi, ai confini col Venezuela di Hugo Chávez, rispetto al quale Palacio Nariño e Casa Bianca stanno cucinando un dossier di accuse basato sui file di quella specie di lampada di Aladino in cui si è trasformato il computer del leader delle Farc, Raúl Reyes, ucciso da un bombardamento mirato il primo marzo scorso. Quello che ha tutto il sapore di una macchinazione simile alla passata campagna sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein (a cui partecipano solerti i giornali colombiani e, da protagonista, il quotidiano spagnolo El Pais) serve agli Usa per tenere sotto pressione il governo bolivariano e alla Colombia per nascondere gli scandali interni. Una cortina fumogena, insomma, più spessa di quelle usate in passato.
Mentre ai tempi di Pablo Escobar i narcos erano estradati negli Usa per la debolezza e l’inefficienza della giustizia colombiana, adesso Uribe li spedisce esattamente per il contrario, cioè perché alcuni suoi organismi, come la Corte suprema, sembrano voler andar fino in fondo nell’indagare gli scandali del regime. «Ci affidiamo alla cooperazione con gli Stati uniti affinchè i processi in corso continuino al fine di garantire alle vittime giustizia, verità e riparazione», ha dichiarato senza troppa convinzione il presidente della Corte suprema Francisco Ricaurte. Nonostante la soddisfazione di vedere nei video trasmessi dai tg nazionali i principali macellai colombiani, finalmente avviliti, le loro vittime ritengono che verità e giustizia siano ancora più lontane. «Le rassicurazioni fatte in queste ore non valgono niente. Per le vittime e i loro familiari, partecipare ai processi era già difficile prima. Adesso sarà impossibile», ha detto Eduardo Carreño, il più famoso avvocato del Collettivo giuridico Alvear Restrepo. A preoccupare Carreño e tutti i difensori dei diritti umani c’è anche dell’altro: da ieri in Colombia tutti si aspettano la vendetta dei paramilitari per queste estradizioni. Le vittime saranno quelle di sempre. Così come i mandanti e i sicari, sebbene si firmeranno con la sigla di moda delle «Aguilas negras».