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11.07.07
Un tempo, 2 miliardi di ettari di foreste tropicali ricoprivano il pianeta.
Circa la metà – tra i 750 e gli 800 milioni – è già andata perduta, al ritmo di 11-15 milioni all’anno. Per intenderci, scompare annualmente una superficie pari a quella di un Paese europeo di media grandezza.
Basandosi su questi dati, alcune proiezioni apocalittiche (ma non troppo) indicano nel 2090 l’anno in cui le foreste tropicali saranno cancellate dalla terra.
Tra il 2000 e il 2005, l’Amazzonia ha perduto 12,8 milioni di ettari di foresta, mentre la Repubblica Democratica del Congo rischia di vedere cancellato il 40 per cento del proprio patrimonio forestale entro il 2050.
Cina, COLOMBIA, Congo, Brasile, India, Indonesia, Myanmar, Malesia, Messico, Nigeria e Thailandia: questa è la lista dei Paesi che, complessivamente, attuano oltre il 70% del diboscamento mondiale.
La causa principale della deforestazione è l’agricoltura su piccola scala, soprattutto la coltivazione basata sull’abbattimento e l’incendio.
E’ la cosiddetta tecnica “slash-and-burn”: si abbattono gli alberi e poi si dà fuoco al sottobosco. La cenere fertilizza il suolo, rendendolo immediatamente coltivabile. Ma nel giro di pochi anni, la terra si inaridisce e diventa necessario distruggere un altro pezzo di foresta.
Nel mondo, questo tipo di agricoltura è praticato da circa 200 milioni di contadini, perlopiù nativi.
Quasi altrettanto dannose sono però le attività commerciali di sfruttamento del legname e di allevamento degli animali da pascolo. In questo caso, le responsabilità sono più estese e coinvolgono anche aziende e consumatori europei.
Teoricamente, le compagnie del legname hanno licenze per operare solo in aree limitate, vere e proprie “riserve” di alberi destinati al commercio. Le concessioni sono date in appalto dai governi locali e dovrebbero corrispondere a criteri di ecosostenibilità. Sostanzialmente, è permesso tagliare un numero di alberi compatibile con la velocità di ricrescita degli stessi. Questa varia a seconda delle specie e delle zone.
Ma l’estrazione di legname avviene spesso in forma illegale al di fuori delle concessioni.
Secondo Greenpeace, ad esempio, il 90 per cento del taglio in Papua Nuova Guinea avviene illegalmente, senza consultazioni con le comunità indigene che, in base alla Costituzione, sono proprietarie della selva.
Così, il 60 per cento delle grandi foreste di Papua è già stato distrutto.
Il legno più pregiato di quella zona è il merbau, che alimenta il mercato del parquet di lusso. Si tratta di un albero a crescita lenta, che ha bisogno di 75-80 anni per raggiungere una dimensione di interesse commerciale. Al ritmo attuale di disboscamento, sarà estinto entro il prossimo ciclo di “rotazione”.L’assalto è guidato da multinazionali malesi, che saccheggiano anche la confinante Indonesia. Il legname arriva poi in Europa attraverso rotte che attraversano la Cina.
Proprio l’Indonesia vanta il primato del più alto tasso di deforestazione, con un ritmo di quasi 1,8 milioni di ettari all’anno; circa 51 chilometri quadrati al giorno.
In questo business, sempre secondo Greenpeace, c’è di mezzo anche il nostro Paese, come nel “caso Fipcam”, in Camerun.
L’Italia è il primo importatore di legno dal Paese africano. La Fabrique Camerounaise de Parquet è solo di nome un’azienda locale: i capitali sono italiani.
A seguito di controlli fatti tra il 2004 e il 2007, è emerso che la compagnia tagliava alberi fuori dalla propria concessione, per un totale di circa 3mila metri cubi di legname prelevato illegalmente. La Fipcam è stata multata, ma l’ammenda è ben poca cosa in confronto ai proventi del legname illegalmente commercializzato.
Attenzione al parquet, dunque. Perché sia ecosostenibile, è importante che sia certificato. La certificazione più credibile è quella rilasciata dal Forest Stewardship Council (Fsc), riconosciuta anche da associazioni ambientaliste come Greenpeace e Wwf. Aderiscono al Fsc anche comunità indigene e gruppi di consumatori.
L’organizzazione offre la garanzia che il legno non provenga “da foreste tagliate illegalmente o aree forestali in cui vi sono palesi violazioni dei diritti umani e tradizionali, né da piante geneticamente modificate né da foreste ad alto valore di conservazione”. Per i semilavorati e i prodotti finiti viene invece assicurata la rintracciabilità, che permette di risalire e controllare tutte le fasi di lavorazione, fino alla foresta da cui proviene il legno grezzo.
La certificazione tutela quindi sia l’ecosistema, sia il consumatore.
Ma quanti e quali sono i danni della deforestazione?
Molti, dalla distruzione della biodiverstà alla sottrazione di risorse per le popolazioni indigene; dalla desertificazione nelle aree secche a erosione, frane e smottamenti nei territori piovosi e collinari.
In tempi di Live Earth, ci soffermiamo sull’effetto serra. La deforestazione influisce sul global warming in due sensi: direttamente, attraverso le emissioni di CO2 e di metano prodotte dagli incendi; indirettamente, in virtù del mancato assorbimento dell’anidride carbonica da parte del patrimonio forestale andato perso.
Tanto che un rapporto della Banca Mondiale e del governo britannico sostiene che “le emissioni prodotte dalla deforestazione e dagli incendi sono cinque volte maggiori di quelle di origine non-forestale”.
Gabriele Battaglia
fuente: salvadanaio.economia.alice.it
11 de julio 2007