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27.07.07
Alto, magro, occhi grandi, pelle scurissima. Jairo Miguel Navarro ha 32 anni e da dieci scappa. È un desplazado. Uno degli oltre 3.940.000 sfollati interni che costituiscono in Colombia una delle peggiori tragedie umanitarie del continente americano. Parola dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Vive nell’Alto Cañabraval, villaggio di quattro anime, fra capanne di legno e ruscelli, arrampicato nel nulla della cordigliera centrale del Sur Bolivar. A quattro ore di strada sterrata e impervia, giù verso San Pablo, i militari pattugliano e controllano ogni loro movimento. A quattro ore di strada a dorso di mulo su per la cordigliera fra dirupi e pendii mozzafiato, i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia pretendono da loro la “tassa rivoluzionaria”. “Siamo guerriglieri-contadini, lottiamo per dare il paese al popolo, abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti”, si giustificherà poi un alto comandante Farc.
È qui che Jairo sta cercando di ricominciare tutto d’accapo. “Sono di Achi Bolivar, una vereda a molti giorni di cammino verso nord – racconta, sguardo perso nel vuoto -. Lavoravo nel sociale, per questo divenni un bersaglio. Cercavo di aiutare la gente a prendere coscienza dei propri diritti. Facevo formazione ai contadini, insegnando loro leggi e Costituzione. E qualcuno mi notò. Fu l’inizio della fine. I paramilitari, con modi mafiosi, viscidi, insistenti, iniziarono a rendermi la vita impossibile. Ero nel loro libro nero. E fui costretto ad andarmene. Vagai in molti paesi. Ero solo. La mia famiglia cercò di sopportare la pressione che un personaggio scomodo come me comporta. E mi sentivo responsabile anche per loro. Stetti lontano due anni. Poi, sperando che le acque si fossero calmate, tornai a casa”. Mentre parla incrocia nervosamente le dita, tradendo il profondo dolore del ricordo.
“Questa volta scelsi un profilo più basso e passavo le giornate nei campi con la mia mula – prosegue – Ma la gente improvvisò, col tempo, una sorta di pellegrinaggio a casa mia. Mi pregarono di tornare fra loro, di non arrendermi. E mi feci convincere. Accettai un lavoro simile al primo, ma per l’amministrazione comunale. Fu così che in poco tempo organizzammo una grande marcia di protesta contro l’arrivo di una multinazionale intenzionata a comprare un’area molto preziosa per l’intera comunità. Ricca di acqua e molto fertile, con vegetazione rigogliosa e il sospetto che il sottosuolo nascondesse tesori minerari. Fu la firma della mia condanna. Questa volta divenni obiettivo militare. Per mano di alcuni paras della zona vennero di nuovo a minacciarmi”.
“Era una sera calda e umida. Stavo rincasando – incalza – mi circondarono. Il tempo si fermò. I miei occhi nei loro. Poi se ne andarono. Il giorno dopo ero a Barranquilla”. Una città di mare del nord ovest, vita sfrenata e cemento. Un contadino catapultato in un mondo sconosciuto, dove nascondersi sembrava facile, viverci un inferno. “L’unica cosa che sapevo fare era lavorare la terra e mi unii a gente che diceva aver trovato un’occupazione che pagava bene”. Jairo era diventato un raccoglitore di foglie di coca. “Era l’unico mestiere che mi dava di che sfamarmi. Lavoravo per ore chino sotto il sole, girando da un lato all’altro della cordigliera. Dormivo in capanne di fortuna vicino ai campi coltivati. Ero solo. Mi sentivo solo”.
Poi ha sentito il bisogno di contatto umano. Di gente che lo capisse. E si è spostato nell’Alto San Juan, Sur de Bolivar. Giorni di cammino verso est. “Dopo mesi, divenni delegato della Junta Comunal. La mia attitudine al contatto umano, alla comunicazione, era più forte della paura. Poi la mia attività mi portò a incontrare l’Acvc di Barrancabermeja e finalmente mi sentii di nuovo come a casa”. L’Acvc è un’associazione che conta 25 mila campesinos della Valle del Rio Cimitarra, Magdalena Medio. Nata dodici anni fa, si impegna a formare le società agricole, a lottare per la difesa dei loro diritti, a difendere il lavoro nei campi e a risolvere i gravi problemi sociali di questa gente. Sono tutti desplazados, vittime dello Stato che sta depauperando la regione, fra le più produttive della Colombia, svendendola alle grandi compagnie internazionali. Sono spinti con la violenza a lasciare tutto, a cambiare vita, una, due, otto volte. “E’ un gioco infinito – conclude Jairo, tono triste – In questa regione la terra migliore, pari a un centinaio di milioni di ettari, è in mano al 3 percento della popolazione. E questo a suon di sfollamenti forzati di intere famiglie. Non resta che unirci in gruppi di resistenza pacifica, di studio, di lavoro comunitario, di agricoltura familiare, nel tentativo di arrivare a un’autonomia nell’alimentazione. Il nostro obiettivo è difendere i nostri diritti e proteggere l’ambiente. Due principi che vanno a braccetto, sono inscindibili. Noi viviamo per questo. È l’unica speranza a cui aggrapparsi”.
Fonte: PeaceReporter, 27.7.2007